Articoli di Giovanni Papini

1932


La gioventù
Pubblicato in: L'Azione, anno I, fasc. 8, p. 3
Data: 25 dicembre 1932


pag.3



La gioventù è una vendetta. Il «sè stesso», fatto maggiorenne, vendica la sudditanza del fanciullo coll'ammutinamento delle passioni.
   La gioventù è il delirio d'un prigioniero che s'immagina libero, il conato di rivolta contro la mortificazione della fanciullezza e la putrefazione della vecchiaia. Una fiammata di rigoglio a metà strada tra la paralisi puerile e l'assideramento senile.
   Anche la giovinezza è una malattia ma chi non ha sofferto, questo male sacro non ha vissuto. L'esistere è il sonno calmo della salute ma vivere significa bruciare. L'infanzia è legno verde che fuma, la virilità tiepida bragia e la vecchiaia tizzi spenti e cenere.
   Ogni giovane è un titano che si contorce nei vincoli prima di rassegnarsi alla seconda disfatta. Quelli che si liberano per sempre — colla gioventù perenne — si contano, ogni secolo, sulle due mani é anche l'invidia li chiama Eroi.
   La gioventù è insurrezione e resurrezione. I sepolti si riaffacciano. Il peccatore compresso sublima gli stimoli del male in velleità di potenza: il ladro vuol rapire l'universo, l'assassino cancellare gli antagonisti, Narciso essere adorato nel sole della gloria. E lo spettro del poeta morto tenta di salvare, colle parole finalmente imparate, i rimasugli degli stupori. Infine sorge, dalle profondità del sangue, il terzo personaggio del dramma interno: in mezzo al delinquente insorto e al poeta risorto apparisce l'amante dell'amore. E comincia la corta guerra della trinità infocata contro il resto del mondo.
   Come tutte le ribellioni la gioventù vorrebbe distruggere e creare: distruggere per creare. L'universo esistente, massiccio e nemico, fu costruito senza di noi, e non è fatto per noi. Ne diffidiamo: sembra immaginato contro di noi. Ci chiuse e tenta ancóra di chiuderci: è sospetto come tutte le carceri. Va diroccato. Lo rifaremo più bello, ad immagine nostra e sarà duomo d'un Dio non reclusorio d'uno schiavo.
   Abbiamo un dipiù di forze, un calore immenso da spendere. Rifonderemo la vecchia statua della vita. Ognuno di noi fu, abbandonato nella foresta ma scopre ch'è nato re e che il suo regno si chiama terra. E forse nacque DIO e deve dar forma agli abissi dell'acque e delle tenebre. Re spodestato o pretendente divino, il giovane abbandona la terra d'esilio della fanciullezza per conquistare la terra promessa o il paradiso perduto. La gioventù è nostalgica e profetica: rimpianto di ciò che non fu mai posseduto, desiderio di quel che non sarà mai nostro.
   Il suo doppio destino la fa contraddittoria. La troppa forza la fa debole, l'eccesso della salute trabocca in febbre, le briachezze della speranza si svegliano in disperazioni, e al meriggio del tripudio tien dietro il crepuscolo della malinconia. La precipitosa ingordigia della verità trasporta il giovane ai festini dell'errore. Incalzato da troppe possibilità gode con spasimo, odia con gioia, ama con patimento. Non è solo dentro di sè, dove più anime combattono per il primato, ed è solo di fronte al mondo che vorrebbe sconfiggere.
   Una generazione, benchè porti con sè tutto il fuoco della terra, è troppo scarso esercito contro la necropoli millenaria che ha per recinto la maestà della storia. I mezzi morti che l'abitano son turbati dalla sommossa che minaccia la passiva armonia del costume accettato e della legge subita - ma non tremano.
   Sanno che la guerra è ineguale: i titani giovinetti son destinati quasi tutti, pensa l'uomo savio, a diventare capri domati o pastori tranquilli.
   La fiamma splende ma consumando si consuma: non edifica. E la superbia virulenta non può scompigliare l'universale congiura della rassegnazione.
   Ma pure è il solo tempo della vita in cui veramente si vive: se vita è fuoco, amore di grandezza, sete di perfezione, amore dell'amore. È il solo tempo in cui l'uomo sia come ferro bianco e duttile, pronto a colare nelle forme vili ma anche in quelle divine; non ancora rappreso per sempre nel duro congelamento dell'abitudine. È l'unica stagione che veda fiorire i pensieri grandi: la più felice maturità non potrà che trasformarne qualcuno in frutto. Tutto il rimanente della vita ci scalderemo alla braciglia lasciata dall'incendio della giovinezza.
   Ogni generazione ha un messaggio divino da portare alla città degli uomini e ogni giovane è, in questo senso, un angelo, sia pur ribelle o caduto. Ma questo messaggio rimane quasi sempre enigma o musica senza poter fecondare la concretezza della terra.
   Eppure l'unico segreto perchè l'anima non muoia — e non corrompa il corpo colla sua corruzione — è di rimaner fedeli alla propria giovinezza. Questa fedeltà si chiama genio. Ma pochi uomini furon davvero giovani e quei pochi per brevissimo tempo. Il genio consiste nel salvare una lingua di quel fuoco e farne una torcia che mai non si spenga.

(Dal « Frontespizio »).


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